
Con il nuovo album di inediti, "Amarica", Maurizio Ferrandini
non smette di stupirci, dimostrandoci ancora una volta (se ve ne fosse
stato bisogno) di avere saldamente "nelle tasche il passaporto per il
rock": nei 12 brani che compongono questo concept album si percepisce
un certosino lavoro di ricerca sonora, con chitarre (ma non solo!) in
grande evidenza. Poi, su questa base, si innestano testi al vetriolo,
talora ironici, sempre vibranti, tesi tra la terra ed il cielo, tra
l'umano ed il trascendente, tra la solitudine ed il cosmo caotico in cui
siamo immersi . Il benvenuto iniziale "a he ya eh" della lingua Apache
ci cala perfettamente nell'atmosfera del disco. E' pero' un benvenuto
amaro, un ponte ideale teso tra culture e continenti, su cui pero'
pare transitare unicamente dolore. La successiva "tre, due, uno, boom"
prosegue l'invettiva: su una base musicale tagliente, ecco una poesia
rock in cui sono racchiusi tutti i tarli di un sistema che non regge
più. Il terzo brano, "Totem", e' capolavoro assoluto, una perla
intimista in cui Maurizio mettendosi a nudo tratteggia in maniera
impeccabile la solitudine inquieta dell'artista e dell'uomo. La ricerca
superiore continua con "Grande manitu'", invocazione in cui l'incipit
"salva la mia anima dalle cravatte" da solo fa capire quanto sia
ispirato anche nei testi (a prova di Re-censore) questo lavoro. La
successiva "l'estate di un momento" rappresenta un unicuum nella
discografia ferrandiniana: il testo e' a 4 mani, scomposto e ricomposto,
come un puzzle magico su cui Maurizio innesta una ballata southern
molto convincente. Si passa al blues di "Dio Pagano", ideale
contraltare di "grande manitu'" , ulteriore testimonianza del perfetto
gioco di equilibri del disco. Proseguiamo il nostro viaggio con
"California", un brano maledetto che ti entra sotto la pelle dopo più
ascolti, grazie al suo crescendo fluido, arpeggiato (a qualcuno da
Minneapolis potrebbero fischiare le orecchie) , su cui Maurizio ricama
un testo di rabbia e malinconica disillusione. L'atmosfera si spezza
nel rock della successiva "Re censore": qui spadroneggia ancora
l'ironia nei confronti di un certo mondo musicale, escamotage che
permette al Ferrandini di togliersi con maestria alcuni sassolini dalle
scarpe.Nella traccia 9, "tutti sono fuori", fa capolino il Maurizio
delle "piccole cose": canta in maniera convincente una sorta di
filastrocca/poesia che ammalia dal primo ascolto.Cambio di registro
deciso con il rock di "noi non siamo gli indiani" ultima sferzata e
sguardo deciso verso l'Amarica, in parallelo con una realtà attuale
desolante. L'ultimo inedito ci mette ancora i brividi: ne "il lavoro di
una donna" Ferrandini torna a tratteggiare con sussurri, come solo lui
sa fare, l'universo femminile e - di rimando - quello maschile, in un
capolavoro di fragilità e poesia. Chiude "io non sono solo" pezzo non
inedito, ma riveduto e corretto, ennesimo regalo dell'artista matuziano
che pur cambiando latitudini rispetto a "pop Kong" torna su livelli
altissimi, con il coraggio e la pazzia di incastonare le sue gemme in un
concept album... D'altronde, lo canta anche in Totem: e' lui il
cattivo esempio.
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