lunedì, giugno 24, 2013

Maurizio Ferrandini-Amarica, il cattivo esempio (di Gianmarco Dazzi)


Con il nuovo album di inediti, "Amarica", Maurizio Ferrandini non smette di stupirci, dimostrandoci ancora una volta (se ve ne fosse stato bisogno) di avere saldamente "nelle tasche il passaporto per il rock": nei 12 brani che compongono questo concept album si percepisce un certosino lavoro di ricerca sonora, con chitarre (ma non solo!) in grande evidenza. Poi, su questa base, si innestano testi al vetriolo, talora ironici, sempre vibranti, tesi tra la terra ed il cielo, tra l'umano ed il trascendente, tra la solitudine ed il cosmo caotico in cui siamo immersi . Il benvenuto iniziale "a he ya eh" della lingua Apache ci cala perfettamente nell'atmosfera del disco. E' pero' un benvenuto amaro, un ponte ideale teso tra culture e continenti, su cui pero' pare transitare unicamente dolore. La successiva "tre, due, uno, boom" prosegue l'invettiva: su una base musicale tagliente, ecco una poesia rock in cui sono racchiusi tutti i tarli di un sistema che non regge più. Il terzo brano, "Totem", e' capolavoro assoluto, una perla intimista in cui Maurizio mettendosi a nudo tratteggia in maniera impeccabile la solitudine inquieta dell'artista e dell'uomo. La ricerca superiore continua con "Grande manitu'", invocazione in cui l'incipit "salva la mia anima dalle cravatte" da solo fa capire quanto sia ispirato anche nei testi (a prova di Re-censore) questo lavoro. La successiva "l'estate di un momento" rappresenta un unicuum nella discografia ferrandiniana: il testo e' a 4 mani, scomposto e ricomposto, come un puzzle magico su cui Maurizio innesta una ballata southern molto convincente. Si passa al blues di "Dio Pagano", ideale contraltare di "grande manitu'" , ulteriore testimonianza del perfetto gioco di equilibri del disco. Proseguiamo il nostro viaggio con "California", un brano maledetto che ti entra sotto la pelle dopo più ascolti, grazie al suo crescendo fluido, arpeggiato (a qualcuno da Minneapolis potrebbero fischiare le orecchie) , su cui Maurizio ricama un testo di rabbia e malinconica disillusione. L'atmosfera si spezza nel rock della successiva "Re censore": qui spadroneggia ancora l'ironia nei confronti di un certo mondo musicale, escamotage che permette al Ferrandini di togliersi con maestria alcuni sassolini dalle scarpe.Nella traccia 9, "tutti sono fuori", fa capolino il Maurizio delle "piccole cose": canta in maniera convincente una sorta di filastrocca/poesia che ammalia dal primo ascolto.Cambio di registro deciso con il rock di "noi non siamo gli indiani" ultima sferzata e sguardo deciso verso l'Amarica, in parallelo con una realtà attuale desolante. L'ultimo inedito ci mette ancora i brividi: ne "il lavoro di una donna" Ferrandini torna a tratteggiare con sussurri, come solo lui sa fare, l'universo femminile e - di rimando - quello maschile, in un capolavoro di fragilità e poesia. Chiude "io non sono solo" pezzo non inedito, ma riveduto e corretto, ennesimo regalo dell'artista matuziano che pur cambiando latitudini rispetto a "pop Kong" torna su livelli altissimi, con il coraggio e la pazzia di incastonare le sue gemme in un concept album... D'altronde, lo canta anche in Totem: e' lui il cattivo esempio.

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